venerdì 6 gennaio 2017

La felicità dell’attesa
di Carmine Abate  Mondadori  2016

La gioia più bella concessa all’uomo consiste in un’attesa fiduciosa?
Da S’Agostino alla “Merica Bona”, da Hora a Los Angeles…. La ricerca della felicità di una famiglia di migranti, viaggi della speranza e ritorni alla ricerca della memoria ed un “cameo” letterario, una femme fatale dal neo ammaliatore, un amore perduto rimpianto per tutta la vita ,perché : << Si ama veramente una sola volta…..>>.


 Recensione di Liber Liber La Lettura di Rosy Franzò & Piero Pirosa

Il primo a partire fu Carmine Leto, il nonno paterno di cui porto il nome”. Così l’incipit dell’ ultimo romanzo di Carmine Abate, La felicità dell’attesa, edito da Mondadori. Una saga familiare che abbraccia quattro generazioni di Nostoi, i ritorni sentiti come sogno agognato, miraggi irraggiungibili che preludono ,quasi sempre, a laceranti partenze , gettando chi resta ad una solitaria, eterna elaborazione del “lutto dell’assenza”. Una storia epocale di emigrazione in tre continenti, osservata, narrata ed esplorata con la lente d’ingrandimento,  come solo <<  l’archeologo migrante>> Abate sa  scavare nei meandri della propria e nostra memoria. Lo scrittore affronta temi quali l’emigrazione e l’identità, la famiglia e l’amore, la ricerca delle proprie radici, ma anche dell’attesa del futuro, magnificamente “distillata” nell’esergo tratto dalle Confessioni di S. Agostino: <<I tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro è l’attesa>>. Si poteva pensare che la reiterazione  dell’argomento dell’emigrazione , <<tema tondo>> dell’autore, che permette di passare dal microcosmo al macrocosmo, perché nel primo c’è già tutto, della bella e solare Hora e del mondo arbërëshe , avrebbe portato ad un  progressivo appiattimento dell’ispirazione narrativa dell’Abate. Ed invece no, lo scrittore di Carfizzi  con stile <<real-affabulatorio>>, degno del realismo magico degli scrittori sudamericani, mette in scena una rappresentazione ora dal sapore della tragedia , ora della commedia sentimentale dal retrogusto amaro e malinconico, un crogiolo di sentimenti contrastanti,  eros e thanatos , hýbris e némesis…..…..la vendetta , come  dovere morale e sociale, come giustizia divina, specchio sincero e crudo, del nostro essere umani. La felicità dell’attesa è una specie di dittico con la Collina  del vento,  Premio Campiello  2012, tra  il paese  che resta e resiste e quello che parte, due facce della stessa medaglia, la metafora della vita di Calabria. Il romanzo trova ispirazione dalla vicenda di Carmine Leto e lo scrittore, ha raccontato, di essere stato stimolato da una fotografia del 1903 del nonno scattata a New York. :<<Non l’ho mai conosciuto ….però ultimamente mi avvolgeva in un alone di sguardi affettuosi….Non mi parlava, apriva appena la bocca e la richiudeva pentito, eppure riuscivo a intercettare l’eco del suo desiderio: che sapessi di lui, finalmente, dei suoi viaggi nella Merica Bona, della Grande Guerra ….>>. Inizia, un gioco di analessi e prolessi, piani temporali, generi narrativi e linguistici che abilmente si mescolano, e tante storie nella storia, dove “vero e verosimile” diventano un tutt’uno, dai contorni sfumati , meravigliosamente indistinguibili. La Grande guerra, Andy Varipapa “The Greek”, i grattacieli che sfidano la gravità … fanno da contorno alla love story fra Jon Leto, il protagonista di mezzo, e una giovanissima Norma Jean, non ancora Marylin Monroe, quando ancora aveva nei suoi occhi  vivi la felicità dell’attesa: <<Lo notò di colpo. Era un piccolo neo, così tondo e intrigante che pareva dipinto. Il volto della ragazza splendeva a pochi passi da lui e, ogni volta che si apriva al sorriso, il neo andava su e giù, spuntando solitario come una stella mattutina>>. Nel registro linguistico Abate ci disorienta, passando dall’io narrante  ad una polifonia di voci e ricorrendo ad un  uso più accentuato e diffuso del dialetto calabrese che si affianca all’arbëreshë con pari dignità, rivelando così in maniera cristallina, l’ ideale dello scrittore di “vivere per addizione”.




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